giovedì, Novembre 7, 2024

I Social Media e i grandi monopoli di Internet: l’intervista a Juan Carlos De Martin

Un luogo di confronto democratico o una piattaforma dove dare libero sfogo ai peggiori istinti del genere umano? Un’essenziale fonte di libera informazione o un ricettacolo di fake news e complottismi vari? I Social Media e in generale il mondo di internet sono tutto questo e molto di più. Fanno ormai parte integrante delle nostre vite e di certo non si torna indietro. Ma se e come regolarli, è diventato un tema centrale nell’evoluzione dei sistemi democratici. Ne parliamo con Juan Carlos De Martin, Professore ordinario di ingegneria informatica al Politecnico di Torino e Faculty Associate alla Harvard University. Insieme al professor Marco Ricolfi è co-direttore del Nexa Center del Politecnico.
Di cosa vi occupate?

Il centro Nexa su internet e società è un centro di ricerca del Politecnico fondato nel 2006 in stretto contatto anche con l’Università di Torino. Quello che facciamo si articola in due filoni principali. Il primo è fare ricerca su come le tecnologie digitali hanno impatto sulla società e viceversa, un’opera di divulgazione delle principali novità in ambito tecnologico, in maniera tale che anche persone che non hanno competenze tecniche possano capire di cosa si parla, quando si parla di Blockchain, di Intelligenza Artificiale, di cloud e altri aspetti.

C’è poi un’intensa attività interdisciplinare che porta insieme persone con competenze differenti: ingegneri informatici, ma anche giuristi, semiologi, economisti. Perché riteniamo che l’attività interdisciplinare sia importante sempre, ma lo sia particolarmente per capire qualcosa di complesso, articolato e vasto come il rapporto tra tecnologie digitali e società. Coinvolgiamo anche persone a livello internazionale, visto che il centro Nexa è stato uno dei fondatori di una rete di centri Internet e società che ormai conta più di cento appartenenti e che è stata lanciata dal Berkman-Klein Center for Internet and Society dell’Università di Harvard nel 2012.

È lecito affermare che l’assalto a Capitol Hill e le sue conseguenze facciano parte della grande questione del ruolo dei social media e di come hanno cambiato la percezione del reale?

L’attacco a Capitol Hill è stato effettivamente legato molto al mondo dei social media, ma nello specifico cercherei di non enfatizzare troppo questo ruolo: sicuramente i social media hanno avuto un ruolo in quell’incredibile evento, ma esattamente come tutti i mezzi di comunicazione disponibili in passato. Allora si usavano il telegrafo, i volantini, il telefono; in tempi più recenti fax o sms. I mezzi di comunicazione esistenti sono sempre stati utilizzati per iniziative politiche, a prescindere da come le giudichiamo. Non ci vedo nulla di particolarmente eclatante, se non per il fatto che sono mezzi nuovi e che hanno delle funzionalità e potenzialità nuove.

Anche governi europei tutt’altro che vicini all’ex Presidente Trump hanno criticato la decisione di Twitter e Facebook di chiudere i suoi account. Nessuno discute sia a rischio la libertà di parola, soprattutto del capo della Casa Bianca che ha mille altri modi di far sentire la propria voce, ma è necessaria una riflessione sul ruolo gigantesco che ricchissime, e di fatto monopoliste, società private occupano nell’informazione mondiale. Senza alcuna responsabilità oggettiva.

Il tema posto dalla rimozione dell’account dell’ex presidente Trump, è molto complesso. Ma molto importante e va affrontato. Queste grandi piattaforme che non hanno precedenti nella storia dell’umanità, sono diventati una struttura essenziale della democrazia. E in quanto tali, appare a sempre più persone, me incluso, limitante, trattarli esclusivamente come attori privati che possono agire con un grande margine di libertà. La riflessione, che è diventata rovente dopo la decisione che riguardava il presidente Trump (considerato il ruolo così importante che hanno e considerato che sono attori dominanti, in alcuni casi li possiamo considerare dei monopoli), è: come regolarli in maniera tale che possano svolgere una funzione rispettosa delle libertà di espressione e del diritto di tutti di farsi sentire e di comunicare?

Allo stesso tempo dobbiamo capire che cosa fare e come intervenire quando si manifestano delle derive potenzialmente pericolose. Basta la legge com’è adesso, con i reati di diffamazione ecc… , o c’è da fare altro? Il punto decisivo, secondo me, è il fatto che decisioni come quella della rimozione dell’account di Trump, giusta o sbagliata che sia, non entro nel merito, sia stabilita da una manciata di uomini che vivono negli Stati Uniti, in maniera sostanzialmente discrezionale. Credo che molti si stiano ponendo gli stessi dubbi che mi pongo io e si chiedano in quale altro modo dovremmo regolare questa componente così importante della nostra sfera pubblica.

I grandi gruppi Big Tech nascono con la convinzione che la rete libera per tutti fosse il massimo della democrazia e della libertà di parola. Oggi ci accorgiamo che ha radicalizzato le opinioni, è in grado di far comunicare gruppi violenti ed estremisti ed è uno straordinario volano di false informazioni. Anche veicolate nei paesi democratici da stati autocratici o dittatoriali. Ma l’informazione è davvero più libera se tutti possono essere veicolo di informazione?

Sul digitale e su internet si susseguono da tempo dei veri e propri miti. O se volete possiamo chiamarle narrazioni. Abbiamo avuto un periodo, circa dieci anni fa, in cui internet è stato presentato, anche da autorevoli esponenti politici, come uno straordinario strumento di democrazia e di libertà. Pensate alle dichiarazioni di Hillary Clinton nel 2010, immediatamente precedenti alle cosiddette “rivoluzioni Twitter” in Nord Africa. Soltanto anni dopo abbiamo capito che sia Facebook che Twitter hanno avuto un ruolo decisamente piccolo in quelle rivoluzioni.

Circa dieci anni dopo la narrazione sembra che si sia completamente rovesciata: sono diventati veicoli di odio, disinformazione, paranoie, complotti e così via. Dobbiamo cercare di superare questa tendenza a cavalcare narrazioni di un tipo o dell’altro e cercare di studiare attentamente che cosa sta capitando concretamente sul campo, su questi strumenti. Anche se è difficile farlo, perché noi ricercatori non abbiamo accesso a tutti i dati, agli algoritmi che vengono utilizzati. Bisogna restare ancorati ai fatti per cercare di capire cosa succede e avere poi una base solida per poi intervenire con norme a vario livello. Questo dovrebbe essere l’approccio più laico, oggettivo. Cercando – e parlo come cittadino – di preservare da una parte l’oggettivo ampliamento della libertà di espressione di tutti noi, perché prima dell’arrivo di internet, con i media tradizionali, il diritto di parlare a un pubblico ampio era di una ristretta élite attentamente controllata. Questo è cambiato ed è positivo, sia che parlino le persone che ci piacciono, sia quelle che non ci piacciono.

Allo stesso tempo le dinamiche comunicative possono avere conseguenze sociali e politiche molto rilevanti. La riflessione deve quindi essere: come facciamo a preservare questa libertà di espressione, senza ricadere in un laissez faire totale… un “succeda pure qualsiasi cosa, è soltanto il libero dispiegarsi delle idee…”, ma riconoscere che effettivamente ci possono essere dei problemi. La vera difficoltà è capire cosa fare, come intervenire.

Strettamente legato al problema dell’informazione, c’è quello della privacy e della raccolta dei dati. E di come questi dati vengono utilizzati.

Non è tanto una questione di dire: “io voglio fare le mie cose senza essere spiato…”. Produciamo una quantità di dati straordinaria, molto sensibile, intima, molto vicina alla nostra vita, al nostro corpo, a ciò che facciamo. E questi dati sono molto preziosi sia dal punto di vista economico, che potenzialmente da quello del controllo sociale e politico. Per utilizzare questi servizi siamo costretti ad accettare dei lunghi contratti che ci vengono imposti in maniera unilaterale. Sono complicati, e molto asimmetrici: o li accettiamo così come sono, o non abbiamo accesso al servizio. Siamo quindi liberi di non fare parte di una sfera della comunicazione dove la maggior parte dell’umanità comunica e si informa. Bella libertà quella di non far parte di qualcosa di essenziale! Questo va ripensato. Non è possibile che una manciata di aziende monopoliste, oligopoliste, che di fatto dominano la nostra vita online, possano dire: questo è il patto e se non ti piace puoi anche andartene. E anche cosa si fa con i nostri dati dev’essere soggetto ad una regolamentazione molto più stretta, che riduca questa asimmetria così forte. In Europa, con il regolamento GDPR, si sono fatti dei passi importanti nella direzione giusta, ma si deve fare molto di più. Abbiamo visto la Commissione Europea, lo scorso dicembre, proporre due nuove iniziative legislative, ma ci vorranno anni perché vengano approvate… se verranno approvate…

Google, Amazon, Facebook, i grandi colossi di Silicon Valley hanno cambiato le nostre vite. Per molti aspetti in meglio. Ma il lato oscuro pesa sempre di più e lo sviluppo tecnologico è talmente veloce che è impossibile per il legislatore restare al passo. Che scenari futuri dobbiamo aspettarci? E quali augurarci? 

Certamente, hanno dato un contributo, con aspetti positivi, alla nostra vita. Il problema è che, per  scelta politica deliberata, soprattutto negli Stati Uniti, si è permesso che queste aziende diventassero gigantesche, che acquisissero un numero strabiliante di altre aziende che potevano in nuce diventare dei concorrenti, credo che non una singola acquisizione sia stata bloccata dai regolatori, sia negli USA che in Europa. Gli abbiamo permesso di diventare molto grandi, molto ricche. E questa concentrazione che non è soltanto di potere economico, ma di potere tout-court, ha inevitabilmente, come è già successo nella storia, creato delle distorsioni che adesso cominciano ad essere evidenti a tutti. Il legislatore rimane indietro? Sì, ma potremmo dire che ha scelto di rimanere indietro. Perché queste dinamiche non sono originali, sono già capitate cento anni fa con ferrovie, acciaierie, petrolio. Potevano essere previste e quantomeno rallentate se non integralmente bloccate prima che diventassero complicate da trattare. Ciò detto, la storia non si ferma ed è possibile fare qualcosa adesso, così come è stato possibile cento anni fa, affrontare analoghe concentrazioni di potere.

 

 

 

 

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